Nel corso delle ultime settimane il governo insediatosi in seguito alla vittoria delle destre nelle elezioni politiche del 25 settembre, ha manifestato l’intenzione di procedere a una “riforma” del cosiddetto “reddito di cittadinanza”. Come è noto, quest’ultimo è, in realtà, una misura di contrasto alla povertà che, fino a pochi mesi fa, le destre dicevano di voler abolire, anche se poi, durante la campagna elettorale, hanno smorzato i toni per non scontentare una parte importante del loro elettorato.
Ma in che cosa consisterebbe l’annunciata “riforma”?
Al momento non è chiaro. Sulla base delle prime indiscrezioni sembra che s’intenda dividere l’insieme delle famiglie destinatarie dell’assegno in due categorie: famiglie povere che comprendono “non occupabili” (per età o disabilità) e famiglie povere costituite da “occupabili”. Per le prime, stando a quanto si dice, le cose non cambierebbero molto; per le seconde invece l’assegno passerebbe da un importo massimo di 500 euro mensili a 375 euro.
E quante sarebbero le famiglie costituite da “occupabili” sul totale di quelle che oggi percepiscono il “reddito di cittadinanza”?
Anche questo non è chiaro: un po’ perché, come si è detto, non si sa ancora con certezza quali sarebbero i criteri per essere dichiarati “non occupabili”; un po’ perché le notizie delle quali si dispone circa gli attuali percettori del “reddito di cittadinanza” non sembrano del tutto attendibili. Le stime fornite dai quotidiani parlano di circa una famiglia su tre: sarebbe quindi solo una minoranza ad essere seriamente penalizzata dalla “riforma”, sempre che da oggi alla stesura finale della relativa legge la cifra di 375 euro non venga corretta al rialzo (cosa che mi auguro vivamente).
Difficile dire come andrà a finire: è certo che una parte dell’elettorato delle destre sarebbe felice di vedere gli “occupabili” costretti ad accettare qualsiasi tipo di lavoro pur di evitare la fame; ma ne esiste anche un’altra (molto cara alla Meloni) che, sentendosi abbandonata, smetterebbe di sostenere i partiti di destra…
Pertanto non mi stupirei se, alla fine, del cosiddetto “reddito di cittadinanza” venisse cambiato soltanto il nome. La nuova denominazione proposta infatti (“misura di inclusione attiva”) sembra andare incontro a ciò che chiede la Lega: chiarire in modo inequivocabile che godere di un reddito minimo non è un diritto, bensì un’elemosina elargita soltanto a chi si pone attivamente nella prospettiva di essere incluso nel sistema di sfruttamento capitalistico.
A mio parere, ciò che resta della sinistra dovrebbe invece, per le ragioni esposte in un mio precedente articolo pubblicato il 27 novembre scorso su Umanità Nova, lottare per difendere l’attuale misura di contrasto alla povertà ed estenderla a tutti coloro che non hanno reddito, a prescindere dalla disponibilità ad accettare le proposte di lavoro che vengono loro offerte.
Fermo restando che tale rivendicazione può tranquillamente coesistere con quella, più generale, della diminuzione dell’orario di lavoro a parità di salario.
Luciano Nicolini